GIORGIO CAIONE Fotografia, Progetti culturali, Viaggi
Tra Ottocento Vigezzino e arte contemporanea
ARTISTI
Maestri vigezzini: Alfredo Belcastro, Camillo Besana, Stefano Biotti, Enrico Cavalli, Giovanni Battista Ciolina, Carlo Fornara, Lorenzo Peretti Junior, Gian Maria Rastellini, Giacomo Rossetti.
Artisti contemporanei: Stefano Anchisi, Cornelia Badelita, Romina Bassu, Hubert Blanz, Enzo Cucchi, Antonio De Luca, Marlin Dedaj, Özgür Demirci, Otto Dix, Serena Gamba, Piero Gilardi, Gioberto Noro, Alessandro Gioiello, Sea Hyun Lee, Robert Mapplethorpe, Mary McIntyre, Aldo Mondino, Fabio Roncato, Marcus Schaller.
SPAZIO ESPOSITIVO: Collezione Poscio, Domodossola
ANNO: 2022
Questione di generi
(please scroll down for the English version)
All art has been contemporary
Maurizio Nannucci, 1999
Paesaggio, ritratto, natura morta. Generi dell’arte che persistono nei secoli, oltre le correnti e i movimenti per giungere sino all’epoca contemporanea. Distillati, mutati, sviscerati. Eppur sempre presenti e operanti nelle opere create dagli artisti. Ponti di significato che ci permettono di collegare epoche diverse e instaurare un dialogo in cui emergano connessioni, risonanze, differenze e sconfinamenti.
Lo sguardo di questa mostra è trasversale e non diacronico: un nucleo di assoluto valore di opere dell’Ottocento vigezzino è collocato in una nuova dimensione di dialogo con opere contemporanee attraverso i tre generi del titolo declinati lungo il percorso espositivo. Non un confronto a coppie, ma un consesso libero, un rendez-vous aperto in cui concetti, interpretazioni, tecniche e materiali sono indagati nell’ambito del genere di riferimento.
Parlare di generi serve a creare connessioni che vadano oltre il tempo storico in cui l’opera viene prodotta e investigare una profondità di significati che riguarda l’artista e l’uomo occidentale in quanto tale. Ciò che i nostri occhi vedono - e la nostra mente elabora – sono soprattutto paesaggi, oggetti inanimati, altri esseri umani o animali. Conosciamo e riconosciamo il mondo attraverso categorie culturali che abbiamo sviluppato lungo i secoli. Sono insiemi che persistono e ci guidano nella scoperta della realtà che ci circonda.
Ancora oggi, visitando gli studi degli artisti e le mostre di arte contemporanea, ci si trova di fronte - insieme a molteplici ed eterogenee categorie di lavori - a opere che vengono definite e raccontate come “paesaggio”, “ritratto”, “natura morta”. Esse condividono la caratteristica di attraversare i secoli permettendo di unire sponde spesso considerate eccessivamente distanti come l’Ottocento e il contemporaneo.
A questa mostra il compito di costruire un piccolo ma significativo ponte.
Paesaggio
Nella storia dell’arte il “paesaggio” inteso come genere autonomo è la raffigurazione di uno scenario naturale non subordinato alla descrizione di una storia.
Se possiamo far risalire all’epoca romana l’autonomia del genere paesaggio nell’arte (I sec d.C.) è solo con il Cinquecento che assume importanza decisiva all’interno della produzione artistica. Nel Seicento, grazie alle opere di autori come Poussin e Lorrain, diventa il protagonista di molti quadri, relegando le figure che si muovono in esso a comparse o pretesti per raccontare la natura.
Il trionfo della pittura di paesaggio avviene in Francia nella seconda metà dell’Ottocento. La possibilità di lavorare en plein air, grazie soprattutto all’invenzione dei colori in tubetto, permette agli artisti un’immersione totale nella natura. L’osservazione degli infiniti e sempre cangianti fenomeni della luce e del colore diventa il centro dell’interesse dei pittori. Il paesaggio diviene quasi un pretesto per indagare e sperimentare la rappresentazione della luce con pennellate a tratti, accostate le une alle altre.
È proprio dalla Francia che giunge in Valle Vigezzo il grande rinnovamento della pittura di paesaggio attraverso i numerosi artisti emigranti che fanno ritorno nelle natie montagne ossolane. Nella seconda metà dell’Ottocento, grazie in particolare al ruolo della Scuola di Belle Arti Rossetti Valentini, il paesaggio diventa il genere prediletto dei pittori vigezzini, quello a cui sono generalmente ancora oggi associati dal grande pubblico. Fondamentali in questo senso gli insegnamenti di Enrico Cavalli che porta a Santa Maria Maggiore la lezione di Joseph Guichard (frequentatore di Delacroix) e Adolphe Monticelli (ammirato da Van Gogh e considerato un precursore di Matisse). L’uso di una pittura dai tratti brevi, densi e ben visibili, appresa da Cavalli in Francia, viene declinata nel lavoro en plein air tra i monti della Val Vigezzo. Pennellate grasse e disfatte al servizio della luce e del colore, come nel suo piccolo ma straordinario Paesaggio alpino (1884). Un insegnamento che influenzò gli allievi più brillanti della scuola vigezzina: Giovanni Battista Ciolina, Gian Maria Rastellini, Carlo Fornara e Lorenzo Peretti Junior. Possiamo affermare - citando Davide Ramoni - che “i vigezzini giungono all’Impressionismo direttamente dal Neoclassicismo”. Cavalli e i suoi ebbero come riferimenti Chardin e Delacroix più che Monet e Renoir. Un percorso del tutto originale, benché largamente influenzato dalla pittura francese, in cui la scoperta più sensazionale fu proprio quella più a portata di mano: il paesaggio vigezzino, una natura “in grado di suscitare sensazioni infinite quanti sono gli attimi, gli stati d’animo” (Ramoni). Le impressioni di luce e colore giungono dalla tavolozza alla tela, portando la pittura vigezzina sui sentieri del Divisionismo, soprattutto con Fornara, e quindi a un più controllato naturalismo, ma sempre vibrante e accurato, in grado di scuotere le emozioni dello spettatore e raccontare il cangiante paesaggio della valle ossolana.
Così Fornara ricorda il suo maestro Enrico Cavalli in una breve autobiografia dove condensa alcuni degli elementi portanti della pittura vigezzina: Il Cavalli, mirabile colorista, sviluppò in me il senso dell'armonia del colore, la comprensione delle bellezze naturali e mi iniziò all'indagine del fenomeno luminoso.
I due paesaggi in mostra di Carlo Fornara e di Lorenzo Peretti Junior, ben esemplificano queste parole.
La natura si sposa spesso con la rappresentazione dell’architettura rurale della valle nella pittura vigezzina, come in Paesaggio di Camillo Besana o Baite a re di Alfredo Belcastro, ma anche nel sorprendente Paesaggio vigezzino di Gian Maria Rastellini, costruito con grandi pennellate essenziali che incorniciano un piccolo gruppo di baite tra le linee del paesaggio montano.
È un’architettura tradizionale quella rappresentata dagli artisti vigezzini, fatta di elementi naturali come pietra e legno, un binomio architettura-natura non ancora entrato in rotta di collisione.
Sul medesimo binomio si muove la serie “Civilization” della coppia Gioberto Noro. La natura qui sembra scontrarsi a prima vista con l’elemento più “artificiale” creato dall’uomo per costruire: il cemento. Ma è vero scontro? O si tratta di un confronto che esalta le reciproche caratteristiche facendo emergere ancora più nettamente il verde dell’erba su cui si posa una luce epifanica? Siamo sulla soglia di uno spazio senza tempo, dove tuttavia i termini di natura e architettura continuano a interagire. È uno spazio profondamente determinato dalla visione prospettica dell’apparecchio fotografico: costrizione o riquadro necessario in cui mettere in gioco la libertà?
La prospettiva geometrico-lineare, fondamentale nella rappresentazione dello spazio dal Rinascimento in avanti, non fa parte della tradizione culturale a cui fa riferimento Sea Hyun Lee, artista coreano che dipinge paesaggi in apparenza tradizionalmente orientali. Il colore rosso che pervade tutti i dipinti della serie “Between the Red” conferisce una prepotente unitarietà al quadro che in realtà è composto da molti frammenti di paesaggi diversi. Le porzioni si integrano tra loro, ma non rispettano le proporzioni delle distanze relative; troviamo così un albero sullo sfondo che appare enorme rispetto alle piccole case in primo piano. L’insieme è però omogeneo e armonico, un inno ai paesaggi naturali delle due coree minacciati dallo sviluppo urbanistico, e un anelito di pace sul 38° parallelo nord.
Molti pittori vigezzini furono maestri nell’arte del controluce – Ciolina in primis - il quale dedica un magnifico quadro omonimo a questa tematica, presente in questa mostra.
Fissare sulla tela quell’istante di diafana magia in cui il paesaggio e l’atmosfera si fondono rappresentava una sfida per gli artisti che usavano tavolozza e pennello. La stessa sfida, ma con mezzi diversi, è colta da Marlin Dedaj nella serie “Su la nuda pietra”, prodotta appositamente per questo progetto. Attraverso l’uso delle Polaroid, Dedaj cerca di catturare gli elementi del paesaggio lavorando essenzialmente sulla luce. Le forme della natura e del lavoro dell’uomo appaiono attraverso silhouette, ombre, riflessi. Istanti di paesaggio tascabile nel classico formato quadrato con bande bianche, una scelta estetica che privilegia l’intimità, lontana dalla grande dimensione della fotografia di paesaggio.
In fotografia, la scelta della porzione di mondo da inquadrare è importante tanto quanto quel che si decide di escludere. Il visibile e l’invisibile. La memoria e il rimosso.
Su questi concetti lavora Serena Gamba che al mezzo fotografico predilige ago e filo. La pittura storica è rielaborata dall’artista per far emergere una nuova immagine, una visione lontana dalle forme originarie, eppure legata profondamente ad esse. Sono elementi di un paesaggio pittorico selezionati, isolati e ricostruiti con un nuovo linguaggio, un differente alfabeto visivo libero e personale che ci interroga sulle possibilità del vedere e dell’oblio.
L’appropriazione e la trasformazione di un’immagine preesistente è alla base anche della serie Polaris di Fabio Roncato. In questo caso la fonte non è la storia dell’arte ma le immagini satellitari scattate dalla sonda Landsat-8, normalmente usate da geografi e agronomi per lo studio della terra. Queste immagini, in cui diverse colorazioni permettono di mappare informazioni sulle caratteristiche dei terreni, sono elaborate dall’artista sovrapponendo 20 diverse fotografie della stessa porzione di mondo, intervallate da una breve inclinazione. L’artista crea così una nuova immagine che ha lo scopo non solo di scomporre la specificità delle fotografie satellitari, ma dissolverne le informazioni contenute, in modo da far prevalere il dato estetico dormiente di questi documenti.
Assuefatti alle immagini satellitari e ai numerosi servizi disponibili online, abbiamo ormai l’abitudine di guardare la terra “da fuori”. Così, davanti alle opere della serie Geospaces di Hubert Blanz, pensiamo di vedere esattamente determinate situazioni geografiche: una costa frastagliata, un agglomerato urbano, una porzione di mare. Quello a cui siamo di fronte in realtà è una fotocomposizione delle più piccole parti hardware dei computer che usiamo quotidianamente: immagini di circuiti stampati e semiconduttori trovate liberamente sulla rete e accostate in modo da imitare le immagini satellitari della terra. Blanz lavora tra cognizione e sensazione: da una parte indaga la relazione tra visione e conoscenza, dall’altra mostra i “mattoni” alla base della moderna conservazione della conoscenza.
Se la serie di Hubert Blanz gioca sulla nostra familiarità con un universo visivo contemporaneo, l’artista nordirlandese Mary McIntyre lavora su un immaginario che fa parte della nostra quotidianità ma a cui è riservata scarsa attenzione, un paesaggio familiare ai più - almeno nei diversi occidenti – che giace nel limbo tra abitato e natura, tra urbano e rurale. I luoghi sono quelli dove spesso transitiamo senza soffermarci, sono spazi interstiziali a cui raramente dedichiamo una fotografia ma che contribuiscono forse più di altri a formare l’immagine contemporanea di un determinato paesaggio, come insegnava Luigi Ghirri.
Le fotografie di McIntyre rendono straordinari questi luoghi ordinari colti nelle ore notturne, quando il confine tra reale e finzione si fa più sottile
Ritratto
La storia del ritratto è antica come la storia dell’arte stessa, o quasi. Alcuni studiosi ritengono che i primi ritratti realizzati dal genere umano siano quelli egizi di circa 5.000 anni fa, o addirittura nel neolitico.
Se consideriamo un orizzonte temporale più vicino ai nostri giorni e un ambito essenzialmente occidentale, il genere del ritratto in senso moderno nasce nel Quattrocento, quando nell’arte si impose la centralità dell’uomo. Non solo sovrani e temi religiosi ma uomini in quanto tali come soggetti autonomi dell’opera d’arte, raffigurati con realismo epidermico.
Che lavorassero per nobili famiglie, ricchi committenti o per piccoli borghesi, i pittori che tra XVI e XIX secolo si dedicarono al ritratto furono innumerevoli. Proprio il mestiere di ritrattista fu l’impiego più diffuso tra i pittori vigezzini. A partire dal Seicento decine di artisti originari della valle si specializzarono nel ritratto, spesso preparando nei lunghi inverni le tele su cui abbozzavano le silhouette dei protagonisti dell’opera, per poi completare il quadro davanti al soggetto. Tra molti mestieranti e alcuni artisti raffinati (Rossetti, Peretti, Lupetti, Biotti), la tradizione del ritratto in Vigezzo giunge a un un cambiamento verso la fine dell’Ottocento grazie ancora a una persona e a un luogo: Enrico Cavalli e la Scuola Rossetti Valentini. Forte del suo lungo apprendistato francese e di una straordinaria sensibilità alla luce e al colore, Cavalli realizza ritratti “di struttura classica e di spirito moderno” (Cesura, 1974), caratterizzati da una grande forza plastica che coniuga il colorismo veneto, il chiaroscuro seicentesco e la lezione romantica di Delacroix e Monticelli, come il Ritratto di uomo o La Lizziìn in mostra.
Anche i suoi brillanti allievi, pur divenendo famosi soprattutto grazie ai paesaggi, si specializzano nei ritratti non solo per avere di che vivere, ma per sperimentare senza posa gli effetti di luce e colore, come nello splendido Sognando di Gian Maria Rastellini o nel Ritratto della sorella di Peretti Junior, originale esempio rispetto alla sua produzione più conosciuta. Frequenti sono anche i disegni a carboncino e a matita grassa in cui gli artisti vigezzini ritraggono amici, parenti e colleghi artisti.
Nel passaggio al contemporaneo i confini tra i generi si fanno più fluidi e la totale libertà degli artisti rispetto agli antichi canoni dà vita a composizioni sorprendenti, come i collage di Alessandro Gioiello. Le composizioni dell’artista piemontese uniscono ritratto e paesaggio in maniera del tutto originale: la silhouette di un ritratto nella classica posa di tre quarti viene “riempita” da un antico paesaggio dipinto. Il risultato, nelle parole dello stesso artista, è “una forma di breve componimento poetico. Un haiku visivo che riflette sull’origine e la genesi delle immagini”.
Con l’avvento della fotografia, il mestiere del pittore ritrattista gradualmente scompare. La fotografia però rimane per molti anni una continuazione della pittura con altri mezzi. Tra i più importanti fotografi del XX secolo, Robert Mapplethorpe fu fortemente influenzato dall’arte del passato, in particolare quella classica, come la statuaria greco-romana. La costruzione dei volumi, sapientemente illuminati, e l’uso magistrale del bianco e nero, creano un senso di eternità nei suoi ritratti, anche in quelli dal contenuto più scandaloso. Il contrasto tra la perfezione formale e il messaggio esplicito crea un corto circuito che ci attrae magneticamente verso le sue immagini.
Accanto a pittura e fotografia, il ritratto ha sempre trovato nella scultura un medium ideale per versatilità e durata. Markus Schaller è uno scultore tedesco cresciuto nella DDR, tra vecchie fucine e aree industriali abbandonate. Le sculture in ferro della serie Figure rappresentano esseri umani stilizzati e filiformi che ricordano disegni preistorici; abbinate spesso a del testo goffrato sulla superficie, segnano lo spazio espositivo con la loro verticalità e l’elegante presenza. Spesso descritte come sentinelle delle parole e del tempo, ritraggono l’idea stessa di essere umano, solo e fragile nell’universo.
Senza un volto definito sono le sculture di Schaller, così come le figure femminili dipinte da Antonio De Luca. Una donna chiude gli occhi, con un dolce gesto delle mani, a una ragazza che le sta di fronte. Sembra volerla proteggere da una visione pericolosa o forse dal dolore del mondo. Opera nata durante il primo lockdown da Covid-19, è composta da cinque carte da spolvero. Il ritratto centrale si “espande” con i classici interventi pittorici e le ceramiche di De Luca che dalla superficie cerca di coinvolgere l’ambiente circostante. Dalla tela al mondo, restando essenzialmente e primariamente pittura.
La pittura contemporanea sembra rifiutare, a volte, la nitida precisione della rappresentazione – lasciata comprensibilmente alla fotografia o a correnti specifiche come l’Iperrealismo, eludendo elementi quali il volto, gli occhi, o la bocca come nel caso del dipinto di Romina Bassu, dall’ironico titolo “Il silenzio è d’oro”. L’artista romana con le opere della serie “Archivio anonimo” riproduce pittoricamente una collezione di immagini fotografiche provenienti dagli anni cinquanta. Uomini e donne comuni, divi del cinema e oggetti di un altro tempo diventano “reliquie” di vite passate, raccontandoci un frammento di una storia in cui possiamo connettere memoria individuale e collettiva.
Un’immagine del passato è anche il punto di partenza di Dad and me dell’artista turco Özgür Demirci. Un ritratto dell’artista a quattro anni, realizzato dal padre di Özgür, è esposto accanto a un monitor della stessa dimensione su cui è riprodotto un video. Dalle distese candide di un lago salato in Anatolia avanza un uomo adulto che si avvicina alla macchina da presa guardando fisso in camera. È un autoritratto video dell’artista stesso che ha scelto di riprendersi nello stesso luogo dove trascorse l’infanzia e dove trent’anni prima il padre lo immortalò mentre indossava la divisa della scuola materna. La presenza del padre è evocata solo dal suo sguardo che sembra posarsi su l’Özgür bambino e sul figlio ormai cresciuto, mentre l’artista fissa la telecamera e quindi lo spettatore.
Natura morta
La natura morta è una raffigurazione artistica, tradizionalmente pittorica di oggetti inanimati.
Anche se ritroviamo esempi figurativi molto lontani nel tempo (dagli Egizi al periodo ellenistico), la natura morta si configura come genere autonomo all’inizio del XVII secolo, abbandonando i riferimenti codificati dall’iconografia religiosa o profana.
Genere per molto tempo considerato minore, il suo pieno sviluppo lo conosce in quei paesi europei che vedono la crescita di una nuova committenza borghese. Banchieri e ricchi mercanti il cui interesse per l’arte ricade sempre meno verso opere religiose o mitologiche, preferendo spesso la rappresentazione di oggetti quotidiani, anche per la necessità di arredare le proprie case con quadri di piccolo formato.
Nella Francia del XVIII secolo, in pieno periodo Rococò, un pittore si distingue per la sua scelta quasi ossessiva di dedicarsi alla natura morta: è Jean Siméon Chardin, artista che ha profonda influenza sul Cavalli e sui pittori vigezzini. Interessato all’indagine minuziosa del reale e agli effetti della luce sulle superfici degli oggetti, Chardin realizza opere attraverso vibranti pennellate che scompongono la materia, tecnica che Cavalli apprende attraverso il Monticelli.
Vasta è la produzione di nature morte presso i pittori vigezzini. Anche qui possiamo individuare un passaggio tra un prima e un dopo che coincide con gli anni di insegnamento di Cavalli presso la Rossetti Valentini. Nella Natura morta con uva di Bernardino Peretti, figlio d’arte e padre del Peretti Junior, il disegno è preciso, il cromatismo armonico e morbido; la ricerca dell’artista è diretta verso il bello e la perfezione stilistica, preferendo l’ortodossia all’innovazione. Al contrario le nature morte del Cavalli e dei suoi allievi vibrano di luce e colore. Su di esse il critico Enrico Somarè ebbe a dire: “gli oggetti giacciono in un sonno illuminato dal di dentro da un sogno di pittura”. I toni con gli anni si faranno più vivaci e la materia più ricca (Natura morta con ciliegie), con pennellate dense e un chiaroscuro incalzante.
Questa è la lezione che apprenderanno i suoi allievi, futuri maestri vigezzini che declineranno ognuno secondo le proprie inclinazioni e interpretazioni. Peretti Junior è forse quello che si distaccherà maggiormente dal Cavalli. Il suo Brocca con fiori sembra osservato “da uno specchio ustionato dal tempo, con il vetro che comincia a sciogliersi dall’interno, corrompendo una visione lucida, tersa” (Davide Brullo, 2011).
Carlo Fornara, nella sua lunghissima parabola esistenziale ed artistica, ritorna costantemente alla natura morta. Così nel 1964, a 93 anni, è ancora in grado di dipingere una Natura morta con mele di una forza e freschezza sorprendenti, con i frutti tondi e vivi in primo piano e un suo stesso quadro come sfondo. Rappresentazione nella rappresentazione, immersa nella luce e nel colore.
Dalle mele dipinte dal novantenne Fornara ai frutti intagliati nel poliuretano espanso di Piero Gilardi sembra trascorso un secolo di storia dell’arte. Eppure ci sono solo pochi anni a dividere le due opere. Sono lavori che nonostante le differenze ci parlano di natura e messa in scena dei suoi prodotti. Le mele di Fornara, ben esposte sulla tovaglia bianca sapientemente arrangiata e il melograno di Gilardi appoggiato su un tappeto di foglie verdi. L’attenzione e l’amore per la natura di Piero Gilardi, profusi anche in un instancabile impegno politico, non sono distanti dal legame profondo che i vigezzini instaurano con le proprie vallate, perfettamente consci dell’importanza di un contesto ambientale come quello delle valli alpine, ben prima di qualunque ecologismo.
Tra le diverse tipologie di natura morta, la vanitas ebbe un grande successo durante il XVII secolo. In questi quadri venivano raffigurati elementi simbolici allusivi al tema della caducità della vita come teschi, clessidre, bolle di sapone, fiori recisi. Lo still life fotografico di Stefano Anchisi riprende il tema delle vanitas in una composizione in bianco e nero che inquadra un fiore ormai morente, reclinato su se stesso e minacciato da inquietanti presenze di insetti neri. Un memento mori contemporaneo giocato sull’eleganza formale e sulla qualità intima della luce.
Il successo del genere “natura morta” ha incoraggiato durante il Seicento la produzione in serie di copie da parte di botteghe di pittori, un fenomeno tipicamente europeo che però trova un interessante parallelismo nella Cina contemporanea. Negli anni novanta del XX secolo molti pittori cinesi hanno iniziato a produrre copie di dipinti europei cinque, sei e settecenteschi. Sono i cosiddetti “ritrattisti di Mao”, anonimi copisti che dipinsero, secondo le proprie capacità e il proprio gusto, copie di nature morte e ritratti occidentali. L’artista Cornelia Badelita si appropria pittoricamente di queste opere riproducendole in una nuova e personale versione. Gli elementi che compongono le copie cinesi si moltiplicano e si specchiano in un gioco di sovrapposizioni e traslazioni, interrogandosi sui significati di originale e copia, di gesto e ripetizione.
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A question of genres
Landscape, portrait, still life. Art genres that have persisted over centuries and reach beyond trends and movements, arriving at the present day. Distilled, altered, dissected. Yet always a part of the work created by artists. Bridges of meaning that allow us to connect different eras and establish a dialogue where connections, resonance, differences and encroachment emerge. The exhibition’s gaze is transversal and non-diachronic: a valuable core of 19th-century works from Vigezzo interacts in a new dialogue with contemporary works from the three genres throughout the exhibition. Not as a confrontation of pairs, but as a free forum, an open rendezvous in which concepts, interpretations, techniques and materials are investigated within the context of the genre. Talking about genres helps to create connections that go beyond the time in which the work was produced and to investigate a depth of meaning that concerns the artist and Western man. The things our eyes see and our minds process are mostly landscapes, inanimate objects, other humans or animals. We know and recognise the world through cultural categories we’ve developed over the centuries. They persist and guide us in discovering the reality that surrounds us. Even today, when we visit artists' studios or contemporary art exhibitions, alongside multiple, heterogeneous categories of works, we see works that are defined as "landscape", "portrait" or "still life". Their shared trait of crossing centuries allows them to join sides that are often considered too distant, such as the 19th century and contemporary art. This exhibition has the task of building a small but significant bridge.
Landscape
In the history of art, "landscape" is an autonomous genre representing a natural setting that is not subordinate to the description of a story. If we trace the autonomy of the landscape genre in art back to Roman times (1st century AD) it is only in the 16th century that it acquires importance within artistic production. In the 17th century, thanks to the works of artists such as Poussin and Lorrain, it becomes the protagonist of many paintings, relegating the figures that move within it to extras or pretexts for narrating nature. Landscape painting triumphed in France in the second half of the 19th century. The possibility of working in the open air, thanks above all to the invention of paints in tubes, allowed artists to totally immerse themselves in nature. Observing the infinite and ever-changing phenomena of light and colour became the main point of interest for painters. The landscape became almost a pretext for investigating and experimenting with the representation of light using juxtaposed brushstrokes. The great revival of landscape painting arrived in the Vigezzo Valley from France, with many emigrant artists returning to their native Ossola mountains. In the second half of the 19th century, thanks in particular to the role of the Scuola di Belle Arti Rossetti Valentini, landscape painting became the favourite genre for Vigezzo painters, and the one they are generally still associated with today. The teachings of Enrico Cavalli, who brought the lessons of Joseph Guichard (working with Delacroix) to Santa Maria Maggiore, and Adolphe Monticelli (admired by Van Gogh and considered a precursor to Matisse), were fundamental. The short, dense and clearly visible brushstrokes that Cavalli learned in France are visible in the open-air work of the Vigezzo Valley mountains. He used thick, scrambled brushstrokes for light and colour, as demonstrated in the small but extraordinary Paesaggio alpino (1884). This lesson influenced the most brilliant students of the Vigezzo school: Giovanni Battista Ciolina, Gian Maria Rastellini, Carlo Fornara and Lorenzo Peretti Junior. As Davide Ramoni said, "The people of Vigezzo arrived at Impressionism directly from Neoclassicism". For Cavalli and his peers, Chardin and Delacroix were more relevant references than Monet and Renoir. It was an entirely original artistic path, albeit largely influenced by French painting, in which the most sensational discovery was precisely the one closest to hand: the Vigezzo landscape, nature that was "capable of arousing as many sensations as there are moments or states of mind "(Ramoni). Light and colour moved from palette to canvas, guiding Vigezzo painting on the paths of Divisionism, particularly with Fornara, and therefore to a more controlled but vibrant, accurate naturalism that could shake the emotions of the observer and narrate the changing landscape of the Ossola valley. This was how Fornara remembered his teacher, Enrico Cavalli, in a short autobiography where he summed up some of the main elements of Vigezzo painting: Cavalli, an admirable colourist, developed in me a sense of harmony of colour, an understanding of natural beauty and initiated me into the investigation of the phenomenon of light. The Carlo Fornara and Lorenzo Peretti Junior landscapes on display are the perfect examples of these words. Nature is often combined with the rural architecture of the valley in Vigezzo painting, as in Paesaggio by Camillo Besana or Baite a re by Alfredo Belcastro, but also in the surprising Paesaggio vigezzino by Gian Maria Rastellini, constructed with large brushstrokes that frame a small group of mountain huts between the lines of the mountainous landscape. The architecture represented by artists from Vigezzo is traditional, made up of natural elements such as stone and wood, an architecture-nature combination that had not yet embarked on a collision course. The “Civilization” series by Gioberto Noro is based on the same combination. Here nature seems to collide at first sight with the most "artificial" element created by man for construction: concrete. But is it a true collision? Or is it a comparison that enhances mutual features by making the green of the grass stand out even more clearly in an epiphanic light? We are on the threshold of a timeless space, where nature and architecture nevertheless continue to interact. It is a space that is profoundly determined by the perspective vision of the camera: a constraint or a necessary frame in which freedom is brought into play? The geometric-linear perspective, which is fundamental in the representation of space from the Renaissance onwards, is not part of the cultural tradition referred to by Sea Hyun Lee, a Korean artist who paints landscapes that are traditionally oriental in appearance. The red colour that infuses all the paintings in the “Between the Red” series lends an overwhelming unity to the work which is actually made up of many fragments of different landscapes. The portions integrate with each other, but do not respect the proportions of the relative distances. We can see, for example, a tree in the background that looks enormous compared to the small houses in the foreground. The whole thing is homogeneous and harmonious, a hymn to the natural landscapes of the two Koreas threatened by urban development, and a yearning for peace on the 38th parallel north. Many Vigezzo painters were masters in the art of backlighting - first and foremost Ciolina - who dedicates a magnificent painting of the same name to the theme. Fixing that instant of translucent magic to the canvas, when the landscape and the atmosphere come together, was a challenge for artists using palette and brush. Using different tools but for the same challenge was Marlin Dedaj in the series Su la nuda pietra, produced especially for this project. Using Polaroids, Dedaj tries to capture the elements of the landscape by working mostly with light. Natures shapes and human toil appear through silhouettes, shadows and reflections. The pocket landscape moments inside the classic square format with white borders is an aesthetic choice that favours intimacy and is a far cry from the large dimensions of landscape photography. In photography, the choice of which portion of the world to frame is as important as what is left out of the frame. The visible and the invisible. The memory and what has been repressed. Serena Gamba works on these concepts, favouring needle and thread over photography. She reworks historical painting to bring out a new image, a vision far removed from the original forms, yet deeply linked to them. They are elements of a pictorial landscape that are selected, isolated and reconstructed with a new language, a free, personal and different visual alphabet that questions us about the possibilities of seeing and of oblivion. The appropriation and transformation of a pre-existing image is also the basis of Fabio Roncato's Polaris series. Here the source is not the story of the art, but satellite images taken by the Landsat-8 probe, normally used by geographers and agronomists for studying the earth. Different colours make it possible to map information on the characteristics of the land, and the artist processes these images by superimposing 20 different photographs of the same portion of the world, punctuated with a slight rotation. In this way he creates a new image that aims not only to break down the specificity of satellite photographs, but to dissolve the information contained, making the dormant aesthetic data of these documents prevail. We are addicted to satellite images and the many services available online and have become accustomed to looking at the earth "from the outside." With Hubert Blanz's Geospaces series we think we are looking at exact geographical contexts: a jagged coast, an urban agglomeration, a portion of the sea. What we are actually seeing is a photo composition of the smallest hardware parts of computers we use every day: images of printed circuits and semiconductors found freely on the net and juxtaposed to imitate satellite images of the earth. Blanz works between cognition and sensation: on the one hand he investigates the relationship between vision and knowledge, on the other he shows the "building blocks" of modern knowledge conservation. Where Hubert Blanz's series plays on our familiarity with a contemporary visual universe, the Northern Irish artist Mary McIntyre works on imagery that is a part of our everyday life but to which we pay little attention, a landscape familiar to most - at least in the West - that lies in limbo between town and country, urban and rural. The places we often pass through without stopping, interstitial spaces we rarely take a photograph of but which contribute perhaps more than others to forming the contemporary image of a given landscape, as Luigi Ghirri taught. McIntyre's night-time photographs turn these ordinary places into the extraordinary, where the line between reality and fiction becomes thinner.
Portrait
The history of portraiture is almost as old as the history of art itself. Some scholars believe that the earliest portraits date back about 5,000 years to the Egyptians, or even to the Neolithic period. If we think about a time closer to the present, within an essentially Western scope, the portrait genre in the modern sense was born in the 15th century, when man was the focus in art. Not only humans of royal or religious background but as autonomous subjects, painted realistically. Whether they worked for noble families, wealthy patrons or the petty bourgeoisie, there were countless painters who devoted themselves to portraiture between the 16th and 19th centuries. And it was portraiture that was most common among the Vigezzo painters. From the 17th century, many artists from the area specialised in portraiture, often preparing canvases during the long winters, when they would sketch the outlines to complete the painting later in front of the subject. For many craftsmen and a few more sophisticated artists (Rossetti, Peretti, Lupetti, Biotti), portraiture in Vigezzo changed in the late 19th century thanks again to a person and a place: Enrico Cavalli and the Scuola Rossetti Valentini. With a lengthy French apprenticeship behind him, and an extraordinary sensitivity to light and colour, Cavalli produced portraits "of classical structure and modern spirit" (Cesura, 1974), characterised by great strength that combined Venetian colourism, 17th-century chiaroscuro and the Romanticism of Delacroix and Monticelli, such as the Ritratto di uomo or La Lizziìn, both of which can be seen in the exhibition. Even his brilliant pupils, who found fame mostly through landscapes, specialised in portraits not only as a way to make a living, but also to experiment with the effects of light and colour, as in Gian Maria Rastellini's splendid Sognando or Peretti Junior's Ritratto della sorella, which is a very different piece compared to his better-known works. Charcoal and grease pencil drawings in which Vigezzo artists portrayed friends, relatives and fellow artists were also extremely common. In the transition to the contemporary, the boundaries between genres became more fluid, and the freedom from ancient canons gave rise to surprising compositions, such as Alessandro Gioiello's collages. The Piedmontese artist's compositions combine portrait and landscape in a completely original way: the silhouette of a portrait in the classic three-quarter pose is "filled in" by an ancient painted landscape. In the artist's own words, the result is "a form of short, poetic composition. A visual haiku that reflects on the origin and the genesis of images." With the advent of photography, the portrait painter's craft gradually disappeared. However, for many years photography remained a continuation of painting using other mediums. Among the most important photographers of the 20th century, Robert Mapplethorpe was strongly influenced by the art of the past, particularly classical art such as Greco-Roman sculpture. The cleverly lit construction of volumes and the masterful use of black and white create a sense of eternity in his portraits, even those with the most shocking content. The contrast between formal perfection and the explicit message creates a short circuit that draws us magnetically to his images. Alongside painting and photography, sculpture has always been the ideal medium for portraiture thanks to its versatility and durability. Markus Schaller is a German sculptor who grew up amongst old forges and abandoned industrial areas in the GDR. The iron sculptures in the Figure series depict stylised, threadlike human beings, reminiscent of prehistoric drawings. Frequently combined with embossed text on the surface, they leave a mark on the exhibition space with their verticality and elegant presence. Often described as sentinels of words and time, they portray the very idea of human beings, alone and fragile in the universe. Just like Schaller's sculptures, Antonio De Luca’s painted female figures have no defined facial features. A woman covers the eyes of a girl standing in front of her with a gentle gesture of her hands. She seems to want to protect her from a dangerous vision or perhaps from the pain of the world. A piece created during the first Covid-19 lockdown, it consists of five sheets of construction paper. The central portrait "expands" with De Luca's classic drawings and ceramics that attempt to engage the surroundings. From canvas to the world, they remain essentially, primarily paintings. Contemporary painting sometimes seems to reject the sharp precision of representation - understandably left to photography or specific currents such as Hyperrealism, avoiding elements such as the face, eyes, or mouth as in the case of Romina Bassu's painting with the ironic title "Il silenzio è d’oro." With works from the "Archivio anonimo” series, the Roman artist reproduces a collection of photographic images from the 1950s. Ordinary men and women, movie stars and objects from another era become "relics" of past lives, telling us a fragment of a story in which we can connect individual and collective memory. An image from the past is also the starting point for Dad and me by Turkish artist, Özgür Demirci. A portrait of the artist at age four, painted by Özgür's father, is displayed next to a monitor of the same size where a video is playing. From the snow-white expanses of a salt lake in Anatolia, a grown man approaches, staring fixedly into the camera. It is a self-portrait video of the artist, who chose to film himself in the place where he spent his childhood, and where 30 years earlier his father painted him wearing a kindergarten uniform. The father's presence is evoked only by his gaze, which seems to rest on the child Özgür and his now-grown son, as the artist stares at the camera and thus at the viewer.
Still life
Still life is traditionally a painted depiction of inanimate objects. Although we have examples dating back from the Egyptians to the Hellenistic period, still life emerged as an autonomous genre in the early 17th century, abandoning the references codified by religious or secular iconography. For a long time it was considered a minor genre, and only developed fully in European countries that saw the growth of a new bourgeois patronage, such as bankers and wealthy merchants, whose interest in religious or mythological works of art was decreasing, and who often preferred the depiction of everyday objects, partly because of the need to furnish their homes with small paintings. In 18th-century France, at the height of the Rococo period, one painter stood out for his almost obsessive choice to devote himself to still life: Jean Siméon Chardin was an artist who had a profound influence on Cavalli and the Vigezzo painters. He was interested in the meticulous investigation of reality and the effects of light on the surfaces of objects. Chardin used vibrant brushstrokes to break down matter, a technique he learned from Monticelli. The production of still lifes by Vigezzo painters is vast. Here again we can spot a transition between the before and after that coincides with Cavalli's teaching years at Rossetti Valentini. The Natura morta con uva by Bernardino Peretti, artist and father of Peretti Junior, is precise with soft, harmonious colouring. He strives for beauty and stylistic perfection, preferring orthodoxy over innovation. In contrast, the still lifes produced by Cavalli and his students vibrate with light and colour. Critic Enrico Somarè had this to say about them: "The objects lie in sleep illuminated from within by a dream of painting." Over time the hues become more vivid and the subject matter richer (Natura morta con ciliegie), with dense brushstrokes and an insistent chiaroscuro. This is the lesson his students would learn, future Vigezzo masters who would produce work according to their own inclinations and interpretations. Peretti Jr. is perhaps the one who would go on to deviate the most from Cavalli. His Brocca con fiori seems to have been observed "from a mirror burned by time, with the glass beginning to melt from within, corrupting a lucid, clear vision" (Davide Brullo, 2011). Carlo Fornara, in his extremely long, existential, artistic narrative, constantly returns to still life. In 1964, at the age of 93, he was still able to paint a Natura morta con mele of astonishing strength and freshness, with the round, live fruit in the foreground and one of his own paintings in the background. A representation within a representation, bathed in light and colour. From apples painted by the 90-year-old Fornara to the fruits carved in expanded polyurethane by Piero Gilardi, a whole century of art history seems to have passed. Yet only a few years separate the two works. These are works that despite their differences tell us about nature and the mise en scène of its products. Fornara's apples, displayed beautifully on the cleverly arranged white tablecloth, and Gilardi's pomegranate resting on a carpet of green leaves. Piero Gilardi's attention to and love for nature, spent also in tireless political commitment, are not far removed from the deep bond that the people of Vigezzo share with their valleys, perfectly aware of the importance of an environmental context such as the Alpine valleys, well before environmentalism took off. Among the different types of still life, vanitas painting was extremely successful during the 17th century. These paintings depicted symbolic elements that alluded to the transience of life such as skulls, hourglasses, soap bubbles and cut flowers. Stefano Anchisi's photographic still life takes up the vanitas theme in a black-and-white composition framing a dying flower, bending back on itself and threatened by the ominous presence of black insects. A contemporary memento mori that plays with formal elegance and the intimate quality of light. The success of the "still life" genre encouraged the mass production of copies during the 17th century by painters' workshops, a typically European phenomenon that has an interesting parallel in contemporary China. In the 1990s, many Chinese painters began to produce copies of 16th-, 17th- and 18th-century European paintings. These so-called "Mao portraitists" were anonymous copyists who painted copies of Western still lifes and portraits according to their own skills and taste. Artist Cornelia Badelita pictorially appropriates these works by reproducing them in a new and personal version. The elements that make up Chinese copies are multiplied and mirrored in a play of overlapping and translations, questioning the meanings of an original and a copy, of gesture and repetition.