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Vertigine

Visioni contemporanee della montagna

ARTISTI:
Fabrizio Albertini, Salvatore Astore, Joseph Beuys, Enrica Borghi, Marta dell'Angelo e Gohar Martirosyan, Frenzy, Daniele Galliano, Simone Geraci, Daniele Giunta, Marcovinicio, Irene Pessino, Federico Piccari, Laura Pugno, Pierluigi Pusole, Franco Rasma, Turi Rapisarda, Giovanni Rizzoli, Luigi Stoisa, Gosia Turzeniecka, Velasco Vitali

 

SPAZIO ESPOSITIVO: Collezione Poscio, Domodossola
ANNO: 2021

L’arte è come un percorso sulla cresta di una montagna, si può cadere a ogni istante da una parte o dall’altra
Anselm Kiefer


Nella società occidentale del secondo dopoguerra, la montagna è stata in gran parte relegata a spazio marginale, poco più di una banlieu blanche a uso e consumo delle popolazioni urbane che attraverso il turismo industriale di massa ha contribuito a cambiarne modi di vivere e rappresentazioni. Lo sfruttamento economico dell’ambiente montano ha provocato un cambiamento profondo nella percezione della montagna, facendone un mero luogo di loisir e consumo, o tuttalpiù spazio di produzione energetica ed estrazione di materie prime. Assistiamo invece, negli ultimi due decenni del XX secolo, a una nuova fase di riscoperta della montagna, una metamorfosi del rapporto tra società contemporanea e territori alpini. Un cambiamento disomogeneo e con profonde differenze a livello locale, ma che possiamo far risalire all’approccio innovativo di alcuni artisti, architetti e intellettuali contemporanei, autori di nuove immagini e rappresentazioni dedicate alla montagna. Anche grazie a questi contributi culturali, le terre alte - soprattutto quelle alpine europee - sono ri-diventate “territorio dell’abitare” e non mero oggetto di contemplazione o luogo dell’intrattenimento. Un nuovo interesse e una nuova centralità, simile – in qualche modo - alla grande scoperta della montagna tra Settecento e Ottocento nella cultura europea.

Artisti come Joseph Beuys, a cui questa mostra rende omaggio in occasione del centenario della nascita, hanno posto per primi una questione fondamentale – antropologica oltre che ecologica – riguardo alla natura. Le numerose azioni dell’opera “Difesa della natura”, svolte da Beuys tra gli anni settanta e ottanta del XX secolo, segnano una svolta nell’approccio dell’arte contemporanea verso i temi della natura e del paesaggio, i quali saranno da allora declinati anche come difesa dell’individuo, della sua creatività e dei suoi valori umani: un’arte che educa a un bello che non è nelle forme, nell’estetica, ma nella vita stessa, nel pensiero e nel lavoro. Due opere dell’artista tedesco segnano l’inizio del percorso espositivo di “Vertigine”: un piccolo disegno e il manifesto originale de “La rivoluzione siamo noi”, impreziosite da due fotografie di Turi Rapisarda che ritrae Beuys mentre pianta un albero nel piccolo paese di Bolognano, sull’appennino abruzzese, nel 1984. Un atto apparentemente banale e quotidiano diventa artistico e rivoluzionario, come quello dell’opera “Settemila querce” del 1982 durante Documenta 7 a Kassel: l’opera d’arte è la vita stessa con le sue azioni, e solo così l’artista trova la piena realizzazione di sé.

“Vertigine” prende il via da queste premesse storiche per svelare alcuni aspetti delle ricerche artistiche contemporanee intorno alla montagna. Gli artisti in mostra, attraverso medium diversi, investigano molteplici aspetti legati all’immaginario della montagna, declinando la vertigine del titolo dall’infinitamente grande delle vette alpine fino all’infinitamente piccolo dei cristalli di neve – dimensioni che ci fanno perdere i riferimenti con la scala del nostro spazio provocando un “eccezionale sbalordimento”, sia esso fisico o intellettuale.

Le grandi tele di Velasco Vitali, Luigi Stoisa e Daniele Galliano condividono una matrice realistica. A prima vista il dato naturalistico sembra esaurire l’esperienza dell’opera, conducendoci direttamente alla cosa in sé, alla presenza dominante dei soggetti montani. In realtà il dato figurativo ci propone un contesto, un appiglio, quasi una scusa per riflettere su paesaggi che sono interiori o su relazioni tra pennellate e colore, tra astrazione e figurazione.
Nelle opere di Velasco Vitali il rapporto tra finito e non finito crea suggestioni potenti in un mondo di figure che sembrano emergere ma mai definitivamente, lasciando allo spettatore - o forse a se stesso - la possibilità di completare una visione. È una pittura altamente scenica che non rinuncia alla narrazione pur distaccandosi serenamente dalla mimesi. Le tele della serie “Presenze” di Luigi Stoisa appaiono come rappresentazioni interiori in cui il nero irrompe tra le pennellate ampie che costruiscono gole, picchi, rocce. Colori della terra che si fa cielo e torna roccia, quasi come una scultura su tela.
Daniele Galliano affronta la montagna con distacco, risolvendo forme, linee e chiaroscuri con pennellate gestuali, ma mai violente. È uno sguardo metropolitano sulla natura, fatto di una distanza che non è mancanza di empatia, ma volontà di mettere a fuoco gli elementi del paesaggio senza perderne la visione d’insieme.
La pittura di Pierluigi Pusole, anch’essa figurativa, indaga invece la montagna come possibilità e potenza, soggetti in cui le presenze tipiche dei quadri della serie “Io sono Dio” non sono manifestazioni esterne di panteismo contemporaneo, ma divinità interne allo sguardo stesso, che da solo può modificare la percezione di un paesaggio.
I riferimenti figurativi sono invece minimi nelle opere della serie “Yeti” di Federico Piccari, tavole di compensato verniciate di bianco su cui sono applicati non strati pittorici di olio o acrilico, ma silicone. Materiale lavorato con spatole che alla precisione del pennello possono solo tendere lontanamente, ma capaci di creare quella suggestione labile dei profili montuosi che basta a trasportarci in un mondo esotico di luce accecante e creature abominevoli.
Misticismo, ieraticità e mistero sono tratti che ritroviamo nelle forme monolitiche della scultura di Salvatore Astore, imponente vetta in acciaio, immobile come il tempo sospeso sulla cima di una montagna.
Minimalismo delle forme anche quello di Franco Rasma, che - con operazione opposta nelle dimensioni - concentra nelle sue opere un’ossessione atemporale di segni che nascono l’uno dall’altro, orizzonti scuri e figure coniche che scavano nell’abisso vertiginoso dell’inconscio.
Simboli primordiali e segni essenziali sono presenti nelle opere di Giovanni Rizzoli, come i suoi enigmatici disegni, caratterizzati da un’urgenza espressiva che ricorda l’audace vitalità delle opere infantili.
Da un sogno d’infanzia nasce l’opera di Marcovinicio, in cui l’animale totemico dà forma a un cerchio mistico, una danza matissiana che trasforma l’uomo in cervo, come in un rito ancestrale.
Un rituale antico è il “monosandalismo” che ha ispirato la performance filmata di Marta Dell’Angelo e Gohar Martirosyan. Le due artiste hanno percorso il cammino che porta alla vetta del Monte Aragats - in Armenia - indossando un solo sandalo ciascuna; si tratta di un rito iniziatico pre-cristiano dove il piede nudo simboleggia il contatto con il mondo degli inferi, mentre il piede su cui è calzato il sandalo rappresenta il mondo dei vivi.

Molti artisti hanno un rapporto intenso con l’ambiente montano, fatto di esperienze di vita e frequenti incontri. L’esperienza diretta della montagna è al centro, ad esempio, dell’opera di Irene Pessino. I lunghi mesi trascorsi a 3000 metri di quota sono rielaborati attraverso fotografie in bianco e nero, scattate in pellicola, sviluppate e stampate sul posto in una camera oscura precaria, contraltare della fragile stabilità dell’esperienza vissuta.
Laura Pugno ha frequentazioni intense e continuative con la montagna risolvendo questo rapporto in un approccio fortemente concettuale ed elaborato. Le carte di “Omaggio a Wilson Bentley” sono tentativi di catturare le molteplici forme dei cristalli di neve attraverso la pittura, ispirate al fotografo che per primo riuscì a scattarne delle immagini.
“A futura memoria” fissa invece la forma della neve – di cui l’artista ha eseguito dei calchi - in piccole sculture di jesmonite. Memento della minaccia sempre più concreta secondo cui le future generazioni non potranno vedere la neve coi propri occhi.
Enrica Borghi in montagna ci è nata e cresciuta, ma il suo percorso artistico l’ha portata ad occuparsi di soggetti apparentemente distanti dalle vette del natio Monte Rosa, come i rifiuti e l’identità femminile. L’installazione “Nebulosa” che sale attraverso i piani dell’antica Casa De Rodis simboleggia l’ascesa verso la vetta, durante la quale si possono incontrare le nuvole più basse, ma anche i rifiuti della società contemporanea.
Le minacce alla montagna non arrivano solo dai cambiamenti climatici, ma dall’attività stessa di presunta valorizzazione economica dei territori. Le istanze del turismo di massa hanno contribuito a cambiare profondamente le caratteristiche di luoghi montani divenuti iconici, come Zermatt e il Cervino (Matterhorn, per gli svizzeri). L’artista inglese Frenzy usa immagini eterogenee tratte dalla pubblicità, dalla storia dell’arte e dalla comunicazione visiva, proponendo la provocazione di un Cervino in vendita.

L’esperienza diretta della montagna, l’incontro con il suo ambiente e le sue genti, la conoscenza delle tradizioni e contraddizioni della sua storia, sono al centro dell’opera di quattro artisti inseriti all’interno di questa mostra. Nell’ambito del progetto Carnet de voyage, ideato e prodotto da Collezione Poscio, in collaborazione con l’associazione Asilo Bianco, quattro artisti sono stati invitati a trascorrere un periodo di residenza in Valle Anzasca, tra le montagne dell’Ossola. Gli artisti selezionati hanno potuto così approfondire le proprie ricerche in un contesto per alcuni totalmente nuovo, visitando i luoghi dipinti dai pittori vigezzini dell’Ottocento – i cui quadri costituiscono il cuore della Collezione voluta da Alessandro Poscio e Paola Pirazzi. Le opere, prodotte grazie al progetto, sono inserite all’interno del percorso espositivo e completano la serie di sguardi contemporanei sulla montagna che la mostra “Vertigine” vuole offrire.

 

L’artista siciliano Simone Geraci ha investigato tramite il tema prediletto del ritratto un elemento portante della memoria collettiva della Valle Anzasca: il lavoro nelle miniere d’oro. Grazie ad antiche foto d’archivio dei minatori, l’artista ha creato cinque ritratti su ardesia, profili fieri e toni scuri che fissano sulla pietra i volti di un passato ancora vivo nelle famiglie dei lavoratori.

Fabrizio Albertini usa la fotografia per indagare luoghi e soggetti legati alla sua vita personale. Le fotografie in bianco e nero della serie “Macugnaga” hanno la nitidezza di un ricordo di infanzia, sono ombre di balconi in legno, linee di serramenti, tetti a doppio spiovente e steccati che mescolano realtà e rappresentazione.

Gosia Turneziecka fotografa pitturando. La sua serie di acquarelli dedicata al Monte Rosa ha il formato intimo e intrigante delle vecchie Polaroid. Pennellate essenziali e veloci per fissare sulla carta i profili della “Regina delle Alpi”, apparentemente eterni e in realtà sempre cangianti.

Daniele Giunta è principalmente pittore ma fa della sua esperienza di vita a contatto diretto con la natura il centro della sua arte. L’architettura vernacolare della Valle Anzasca diventa il soggetto per un olio su lino di piccolo formato, una costruzione delineata con pennellate materiche e colori accesi, rifugio di legno nella natura, come la cabin realizzata dall’artista nei sui boschi.

 

Arte e vita dunque, eterno ritorno all’insegnamento beuysiano come continuo ripensarsi in relazione alla natura e alle cose del mondo, non la “bella forma” ma un progetto che vada oltre ai sensi per portare a galla nuovi e inediti significati. Quale ambiente migliore, quindi, per provare ad andare “oltre” se non l’alta montagna dove - ci ricorda George Simmel – “la liberazione dalla vita intesa come casualità, oppressione, isolamento e meschinità, ci perviene (…) non dalla pienezza stilizzata della passione della vita, ma dal distacco da quest’ultima; qui la vita è come intessuta e presa in qualcosa che è più silenzioso e più immoto, più puro e più alto di quel che potrebbe essere essa stessa”.

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